L’orco: Racconto breve di Annamaria Ferrarese

L’orco.

Mi risvegliai il mattino seguente serena e piena di energie, come se ad un tratto fossi consapevole che tutto sarebbe andato a meraviglia. Chissà se ero stata via mentre dormivo, in cuor mio sapevo di sì, non avevo neppure acceso la telecamera del computer e non mi interessava farlo. Mi stiracchiai e andai in bagno. Guardandomi allo specchio vidi dei fili d’erba, verde smeraldo, spiccare tra il colore scuro dei miei capelli. Sorrisi, mentre ricordavo con vivida chiarezza cosa avevo sognato. No, non sognato ma dove ero stata.

D’istinto, andai a prendere il quaderno, che era stato di nonna Adele, e delle matite colorate e mi sedetti al tavolo di cucina.

Con una strana emozione aprii la copertina e sulla prima pagina trovai la scritta Raccontami, in quell’elegante corsivo che già avevo visto sulla pagina del libro sul leggio.

Assorta nel ricordo, iniziai a tracciare la sagoma di un salice piangente, mentre coloravo e disegnavo, potevo sentire l’odore intenso dell’erba e una leggera brezza tiepida sul viso. Sentivo il brusio delle api che baciavano i fiori che disegnavo e delle fievoli risatine mentre disegnavo le piccole fate che abitavano il salice. Un mondo incantato che avevo visitato e che ero riuscita a portare con me. Ammirai il disegno che avevo creato continuando ad avvertirne ogni sensazione, fino al momento in cui  richiusi il quaderno. Allora tutto cessò.

Non so descrivere come mi sentissi. Certo ero spaventata, ma, nello stesso tempo, l’emozione di stupefacente euforia per quello che mi stava succedendo, mi rallegrava.

Nonostante fossero passate le 13:00 non avvertivo la fame. Sentivo invece un forte desiderio di visitare ancora quel magico posto, ma non avevo sonno.

Sdraiata sul divano chiusi gli occhi per ritrovarmi istantaneamente davanti alla fessura luminescente dell’albero. Quindi potevo andare e venire a mio piacimento in quel mondo fantastico, senza dovermi addormentare! Non persi tempo, e osservai per la seconda volta le mie mani aprire i lembi ed il mio corpo scivolare in essi. Il leggio mi aspettava e così anche le porte.

Sulla pagina del grosso libro c’era il mio disegno, trasferitosi misteriosamente dal quaderno. Il titolo era “Incanto”. Lo accarezzai con la punta delle dita, chiedendomi quale fosse la porta che mi avrebbe condotta dalle mie fate. Fui attratta da quella in pino, nodosa e profumata, che già avevo visto. Sicura del fatto che, sul mio divano non sarei sparita del tutto, decisi di aprirla ed impugnai la maniglia in ferro.

 La porta si aprì, scricchiolante e pesante su una grande sala, richiudendosi alle mie spalle con un tonfo sordo.

La forte luce solare filtrava dalle gigantesche vetrate illuminando le alte pareti ornate di ritratti ottocenteschi e la maestosa scalinata che portava al piano superiore che spariva nel sontuoso affresco della volta. Mi guardai intorno, affascinata dall’arredamento. Ma dov’ero finita?

– Che diavolo ci fai qui, sguattera! – Esclamò una voce maschile alle mie spalle.

Mi voltai spaventata, con la strana sensazione che i miei vestiti fossero ingombranti. Sgranai gli occhi trovandomi dinnanzi un uomo dal viso affilato con due baffi impomatati che mi fissava con occhi scuri stretti in due fessure. Guardava proprio me! Ma che vestiti portava? Abbassai lo sguardo ed anch’io indossavo un lungo abito scuro, con un grembiule sudicio stretto alla vita. Sentivo il freddo del pavimento in maiolica, sotto i piedi. Ero scalza. Deglutii abbassando la testa spaventata, l’uomo stava per colpirmi. La sua pesante mano schioccò sul mio viso, facendomi perdere l’equilibrio. Caddi, portandomi una mano sporca sulla guancia, il colpo mi rintronava nell’orecchio con un sibilo. Cercai disperatamente la porta dalla quale ero entrata, ma era scomparsa. Calde lacrime riempirono i miei occhi facendoli bruciare. Incontrai ancora il volto arcigno di quell’uomo che sorrideva mentre mi sferrava un calcio nelle costole, ricordo solo che vomitai e poi persi i sensi.

Quando rinvenni mi trovavo in terra su una vecchia coperta grigia, accanto ad un grande camino, dove sospesa su un gancio, era appeso un piccolo calderone, simile a quello delle streghe. Una donna tozza che odorava di pane fresco mi puliva il viso dal sangue incrostato, che mi era colato dalla bocca.

– Che ti dice la testa? Perché sei andata di là? Il padrone avrebbe potuto ucciderti! –

Provai a parlare, ma la fitta che provai al fianco mi fece desistere.

– Fai piano, cerca di non muoverti. Devi avere qualche osso rotto. – Mi disse con fare materno, continuando a pulirmi con una pezzuola di cotone che immergeva in una ciotola di terracotta piena d’acqua.

Mi guardavo intorno spaesata. Mi trovavo in una vecchia cucina. Gli abiti che indossava la donna e un uomo, intento a posare sul grande tavolo un grosso tacchino morto ancora piumato, erano quelli indossati dalla gente povera, nell’ottocento. Appese alla parete sopra una cucina a legna, c’erano pentole, casseruole in terracotta e leccarde. Attraversando la porta ero giunta in un altro tempo…

– Come sta?- Chiese l’uomo.

– Si riprenderà. È una fortuna che non l’abbia ammazzata! –

– Ho incontrato il padrone, mi è sembrato più nervoso del solito… –

– Ho sentito le grida della padrona… l’ha picchiata ancora. –

Smisero di parlare e l’uomo uscì.

– Rimani qui. Riposati finché ti è possibile. – Mi disse.

Devo essermi addormentata, perché quando riaprii gli occhi le braci nel camino erano quasi spente, intorno a me c’era il buio. Avrei voluto sapere l’ora, sapevo solo che era notte, potevo vedere il cielo stellato dalla finestra.

Provai a muovermi con cautela, temendo il dolore al costato. Lo sentivo ancora, ma stava passando. Cercavo con lo sguardo la donna che mi aveva soccorso e che, a quanto pare, mi conosceva. Ero sola e avevo una gran sete. Vidi una brocca sul ripiano in pietra e lentamente mi alzai per raggiungerla. Sentivo un odore nauseante nell’aria, probabilmente proveniva dal tacchino spennato e privo di testa che era stato appeso alla cappa a sgocciolare in una ciotola.  Le mani che afferrarono la brocca non sembravano le mie. Avevo le unghie spezzate ed erano sporche, i palmi avevano dei calli giallastri e i dorsi erano irritati e abrasi. Bevvi due grosse sorsate, l’acqua sapeva di terra, ma non mi importava. La luna illuminava bene l’ambiente, a terra vicino alla porta scorsi dei sacchi di iuta pieni di granaglie, mi ci sedetti cercando di trovare uno straccio di lucidità per avere il coraggio di raggiungere il salone, che per altro non sapevo dove fosse, per ritrovare la mia porta. Dovevo fuggire da quel posto.

Cercai di attenuare il mio respiro e il battito del mio cuore, che sembrava mi assordassero, quando mi fui calmata, mi diressi verso la piccola porta e piano l’aprii. Scricchiolò appena e tesi l’orecchio nell’angusto andito buio. Lentamente mi incamminai, tastando con le mani le pareti. Raggiunsi un’altra porta, da sotto, sul pavimento filtrava una tenue luce, l’aprii. Mi ritrovai nel salone che ebbi visto la prima volta, le grandi vetrate permettevano ad una luna pallida di inondarlo con la sua luce. Scrutai con attenzione la parete che mi stava difronte, al di là della sala e, proprio sotto il ritratto dell’uomo che mi aveva percosso, scorsi la mia porta. Svelta mi inoltrai, ma un urlo di donna mi costrinse a fermarmi e a nascondermi dietro la balaustra della scalinata.

– Nooo! Per carità, lascialo stare! – Supplicava la donna.

Un bimbo piangeva, si lamentava:  – No papà, no, lasciami… –

– Scappa Stefano, scappa! – Urlò la donna disperata.

Si sentì uno schiocco e un tonfo, proprio sopra la mia testa; piccoli passi svelti si allontanavano seguiti da altri, più pesanti.

I piccoli passi avevano raggiunto la scala ed iniziavano a scenderla velocemente, il bimbo cadde, non doveva avere più di cinque anni. Mi vide, porse un braccino scarno tra le colonne intrecciate della balaustra, verso di me.

 Mi avvicinai, i suoi occhioni neri mi supplicavano affacciati su un visino pallido, due grossi lacrimoni scivolarono, lasciando un segno, sul sangue che gli sporcava  le guance.

-Eccoti qui, bastardello!- Tuonò cupo l’uomo.

Mi ritirai nel buio per non essere vista.

Non mi ero accorta che ci aveva raggiunto, leggero come un fantasma. Afferrò la chioma scura del bimbo, sollevandolo da terra con uno strattone. 

-Sei selvatico come tua madre, ma non hai via di fuga bastardo, come non ne ha avuta lei.-

Aveva il viso imperlato di gocce di sangue scuro. Sollevò il bambino all’altezza del viso e gli diede un morso sulla guancia. Il bambino urlò e poi d’improvviso tacque, fissò gli occhi nel vuoto e non emise più suono, paralizzato dal terrore. L’orco lo aveva raggiunto, in un attimo lo scagliò giù, facendolo atterrare ai piedi delle lussuose scale. L’uomo rise di gusto e dopo un momento ritornò di sopra.

Mentre la bestia  saliva le scale ridendo, mi accorsi di un chiaro bagliore sulla parete alla mia sinistra. La porta! La mia porta mi chiamava. Finalmente riuscii a staccare i piedi dal freddo pavimento.   Corsi verso il piccolo corpicino inerme, la testa girata più di quanto fosse possibile, mi mostrava il suo sguardo atterrito, ma non respirava più.

A grandi falcate raggiunsi la mia porta, piangevo disperata senza emettere suono, la gola serrata in un nodo doloroso. Impugnai la maniglia, aprii la porta e mi lanciai dentro. Caddi sul morbido tappeto di muschio umido, con fatica riuscii a sciogliere il nodo nella gola e urlai la mia disperazione.

Riaprii gli occhi sul mio divano, la luce del primo pomeriggio si era trasformata in buio, guardai l’ora sul cellulare e con sgomento vidi che erano le 02:25, mi ero risvegliata in piena notte. Sul tavolo della cucina era rimasto il quaderno magico, mi chiamava, sentivo l’impulso irrefrenabile di impugnare la matita e disegnare. E così feci.

La dicitura in corsivo, in alto alla pagina, recitava: L’orco.

Annamaria Ferrarese

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